21 gennaio 2015

DINO BUZZATI: I DOLORI, I RIMPIANTI E LE DELUSIONI DEL NOSTRO TEMPO.


Dino Buzzati 1906-1972

Dino Buzzati è un letterato che ha saputo dare  voce all'assurdo dell'esistenza, mostrare il risvolto paradossale e inquietante del vivere. Buzzati utilizza il coraggio della fantasia, espressa con un calibrato pizzico d'ironia, obbligando il lettore a pensare, a riflettere sul senso della vita in una misteriosa e opaca dimensione della realtà. Come in questo racconto, nel quale i rimpianti toccano così in profondità il protagonista, Ernst Kazirra, da spingerlo a maturare in un attimo l'idea di aver commesso troppi errori. È come se fosse al termine della sua esistenza ed è chiamato a renderne conto, a leggere il bilancio del dare e dell'avere. Egli ha improntato la sua vita alla ricerca del successo, sacrificando ogni altro valore, soprattutto i sentimenti. I tre giorni, che vengono descritti in una situazione surreale e in un forte contesto di simboli,  gli consentono finalmente di comprendere com’egli li abbia vissuti trascurando le cose sue più care, come la fidanzata, il fratello morente e il cane fedele.
La scoperta, che avviene nell’ombra della notte, è agghiacciante: sono stati i giorni perduti.


I GIORNI PERDUTI

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all'estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone.
Kazirra scese dall'auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro; che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali.
Si avvicinò all'uomo e gli chiese:
- Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c'era dentro? E cosa sono tutte queste casse?
Quello lo guardò e sorrise:
- Ne ho ancora sul camion, da buttare. Non sai? Sono i giorni.
- Che giorni?
- I giorni tuoi.
- I miei giorni?
- I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso?
Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì uno.  C'era dentro una strada d'autunno, e in fondo Graziella la sua fidanzata che se n'andava per sempre. E lui neppure la chiamava.
Ne aprì un secondo. C'era una camera d'ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava. Ma lui era in giro per affari.
Ne aprì un terzo. Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk il fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare.
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
- Signore! - gridò Kazirra. - Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole.
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Poi svanì nell'aria, e all'istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l'ombra della notte scendeva.

Dino Buzzati
"I giorni perduti", in 180 racconti, Milano, Mondadori. 

20 gennaio 2015

SONO UN ALBERO DI ANGIOLETTA FACCINI.




Sono un albero

Come un albero
Mi muovo al solo timido
alito di Vento
mia Linfa vitale
Sono un albero
respiro ad ogni soffio di labbra
che sulla chioma s'apre e tutto
Intorno emana l'etere nel mio essere e
colla mia cima posso
accarezzare il cielo
colla danza a volte sinuosa
porto nuove ventate sempre
mai uguali
a volte carezzevoli a volte
pungenti
Sono un albero e
dei quattro elementi mi beo
gongolando
Come femmina che in palmi adulti
giace nel piacere dell'oblio

7.1.15/af
Angioletta Faccini

8 gennaio 2015

ALFONSO GATTO, INVERNO A ROMA.

Una poesia di Alfonso Gatto esemplare dal punto di vista sia stilistico che tematico. Poeta immenso è Alfonso Gatto, nato in quella mia stessa terra dove il mare si slarga fino al punto estremo del golfo. A settentrione c’è Punta Campanella e la divina costiera, mentre nella zona meridionale il litorale della piana del Sele con i templi di Paestum. Nelle giornate terse di sole, si potrà vedere il promontorio di Capo Palinuro, la mitica località per dove passò Enea con la sua nave, e il suo nocchiero Palinuro vi trovò la morte, ingannato dal dio del sonno Morfeo.

Qui il Poeta è a Roma, nei cui pressi da anni io vivo, ed è inverno come adesso. Sintomatica è la presenza nei primi versi, di un nucleo tematico, l’inverno, il freddo inverno, opulento e grondante di pioggia. Tra esse le bambine con le labbra screpolate, nel tipico gesto, appoggiandosi sulle ginocchia, per intravedere al di là della pioggia, il luminoso rinascere del sole. Si toccano con le mani intirizzite gli umidi capelli, le bambine che chiedono solo amore e pietà, viste così tenere e pure mentre si stringono lo scialletto sulle spalle. A leggerlo fino in fondo, entrando fin dentro le parole e le immagini, Alfonso è un poeta che emoziona, fa riflettere e commuovere per la sua intensità affettiva verso ciò che vede e che con il suo cuore limpido poi descrive in versi di una raffinatezza alta e pura. È raro trovare di questi versi nella poesia italiana del novecento.


Inverno a Roma

I bambini che pensano negli occhi
hanno l' inverno, il lungo inverno. Soli
s' appoggiano ai ginocchi per vedere
dentro lo sguardo illuminarsi il sole.
Di là da sé, nel cielo, le bambine
ai fili luminosi della pioggia
si toccano i capelli, vanno sole
ridendo con le labbra screpolate.
Son passate nei secoli parole
d' amore e di pietà, ma le bambine
stringendo lo scialletto vanno sole
sole nel cielo e nella pioggia. Il tetto
gocciola sugli uccelli della gronda.

Alfonso Gatto
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