Salvatore Quasimodo nacque a Modica, in provincia di Ragusa il 20 agosto 1901 e mori a Napoli il 14 giugno 1968, dove fu ricoverato d’urgenza in ospedale in seguito ad un improvviso malore, mentre si trovava ad Amalfi a presiedere un premio letterario. Visse per lungo tempo a Milano.
Il suo percorso poetico si apre con la raccolta Acque e terre (1930), dove vengono imposti alcuni temi sostanziali della successiva produzione. La raccolta si muove tra la rievocazione di una mitica e serena, seppur sofferta, infanzia nella lontana Sicilia e un senso di un doloroso vincolo d’esiliato, dovuto a un dolorosissimo sradicamento dalla propria terra: a me piace utilizzare il termine “i poeti dell’esilio”, nonché ermetici non ortodossi, che comprendono, oltre Quasimodo, il salernitano Alfonso Gatto e il lucano di Montemurro Leonardo Sinisgalli.
Questa condizione provoca nelle liriche quasimodiane un senso di debolezza per il rimpianto di una primitiva innocenza e di una perduta comunione con i luoghi lontani. In me un albero oscilla, scrive a Milano riferendosi agli alberi di eucaliptus della sua terra d’origine, emblematica considerazione tesa a concretizzare la malinconia dell’esule, un senso del male di vivere, angosciosa solitudine esistenziale e un’ansia di infinito e di assoluto.
L’irrompere tragico della guerra conduce il poeta ad una revisione della sua poetica, incidendo soprattutto sui contenuti, come si avverte nelle raccolte Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è un sogno (1949). Unificando la tragedia della guerra e la cultura italiana, Quasimodo scrive:
Il suo percorso poetico si apre con la raccolta Acque e terre (1930), dove vengono imposti alcuni temi sostanziali della successiva produzione. La raccolta si muove tra la rievocazione di una mitica e serena, seppur sofferta, infanzia nella lontana Sicilia e un senso di un doloroso vincolo d’esiliato, dovuto a un dolorosissimo sradicamento dalla propria terra: a me piace utilizzare il termine “i poeti dell’esilio”, nonché ermetici non ortodossi, che comprendono, oltre Quasimodo, il salernitano Alfonso Gatto e il lucano di Montemurro Leonardo Sinisgalli.
Questa condizione provoca nelle liriche quasimodiane un senso di debolezza per il rimpianto di una primitiva innocenza e di una perduta comunione con i luoghi lontani. In me un albero oscilla, scrive a Milano riferendosi agli alberi di eucaliptus della sua terra d’origine, emblematica considerazione tesa a concretizzare la malinconia dell’esule, un senso del male di vivere, angosciosa solitudine esistenziale e un’ansia di infinito e di assoluto.
L’irrompere tragico della guerra conduce il poeta ad una revisione della sua poetica, incidendo soprattutto sui contenuti, come si avverte nelle raccolte Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è un sogno (1949). Unificando la tragedia della guerra e la cultura italiana, Quasimodo scrive:
La guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori dell’uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, più delle scienze e degli accordi tra le nazioni che possono essere traditi.
VENTO A TÌNDARI
Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Salvatore Quasimodo
L’essenza tematica della lirica nasce dalla conflittualità, sempre presente in Quasimodo, tra la memoria dei paesaggi dell’infanzia siciliana e l’aspro esilio.
Ora il suo pensiero va a Tìndari, un piccolo promontorio vicino Messina a picco sul mare, di cui la memoria della cara fanciullezza ha fissato nell’anima un luogo quasi mitologico, un arcano e lontano angolo di serenità; ma nella maturità pensosa appare inquieto ed aggressivo, sferzato dai venti del dio Eolo. Risalgono al cuore il ricordo degli amici contrapposto all’amara affermazione che a quei luoghi amati è ignota è la terra / ove ogni giorno affondo.
Ora il suo pensiero va a Tìndari, un piccolo promontorio vicino Messina a picco sul mare, di cui la memoria della cara fanciullezza ha fissato nell’anima un luogo quasi mitologico, un arcano e lontano angolo di serenità; ma nella maturità pensosa appare inquieto ed aggressivo, sferzato dai venti del dio Eolo. Risalgono al cuore il ricordo degli amici contrapposto all’amara affermazione che a quei luoghi amati è ignota è la terra / ove ogni giorno affondo.
ALLE FRONDE DEI SALICI
E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Salvatore Quasimodo
L’immagine di straordinaria bellezza e potentemente suggestiva di questa lirica è di derivazione biblica e si riferisce all’episodio degli ebrei che in schiavitù a Babilonia, si rifiutarono di cantare le lodi a Dio in terra straniera. Così l’avvenimento è riportato nel Salmo 136: Sui fiumi di Babilonia, / là sedevamo piangendo / al ricordo di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre. / Là ci chiedevano parole di canto / coloro che ci avevano deportato, / canzoni di gioia, i nostri oppressori: / «Cantateci i canti di Sion!». /Come cantare i canti del Signore / in terra straniera?.
Anche gli italiani dagli anni ’43 e ’45 vivevano nelle stesse condizioni di servitù e dolore.
Anche gli italiani dagli anni ’43 e ’45 vivevano nelle stesse condizioni di servitù e dolore.
Poeta lirico tra i maggiori del nostro tempo. Premio Nobel alla letteratura del 1959, fine traduttore dei lirici greci, di Virgilio e di Catullo. Ha cantato la nostalgia per la sua terra lontana.
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