17 dicembre 2011

LETTERA ALLA MADRE, DI SALVATORE QUASIMODO.

Nell’invocazione iniziale in latino mater dulcissima, che ricorda le litanie in onore della Madre di Gesù, è condensato l’affetto quasi religioso del Poeta per la madre lontana. Egli ha sempre sentito nel cuore la spina d’avere un giorno lasciata la madre in terra di Sicilia per andare in altri luoghi; e in quel dulcissima mater, ripetuto a chiusura della lettera, c’è anche un’invocazione di perdono, proprio come in una preghiera. Il Poeta vive a Milano e, nel paesaggio malinconico del Naviglio che urta sulle dighe, degli alberi pregni d’acqua, del bruciore della neve, egli avverte, al di là delle nebbie, la triste nostalgia. Così  immagina la madre che soffre per il figlio distante dalla sua fanciullezza; eppure egli la tranquillizza:

non sono triste, e pur non essendo in pace con me stesso, non aspetto perdono da nessuno perché nessuno ho offeso; mentre molti mi devono lacrime per come mi hanno fatto tanto soffrire.

Quante lettere che la madre gli ha scritto alle quali egli non ha mai risposto!
Ma oggi, finalmente, è lui a scrivere; e s’affollano i suoi ricordi, quando ancora ragazzo, fuggì di notte con un mantello corto e alcuni versi in tasca, ad inseguire la sua vita che lo chiamava e  i suoi sogni letterari. Quanto timore nel cuore della madre desolata per la prontezza di cuore del figlio e la sua generosità. Ora il Poeta ricorda, sì, rivede la madre il giorno della sua fuga dalla stazione ferroviaria di Licata, alla foce del fiume Imera, fiume di gazze e sale giacché prossimo alla foce, rivede gli alberi  d’eucalyptus.  Il Poeta è grato alla madre per avergli messo sul labbro una mite ironia sorridente che lo ha aiutato nei momenti più difficili e tormentati della vita, e non importa se ora ha qualche lacrima per lei e per tutti quelli che aspettano e non sanno che cosa, forse solo la morte: che sia gentile, non fermi l’orologio che batte sopra il muro della cucina, testimone di tutta la sua infanzia e non sfiori col suo gelo mortale la mano e il cuore dei vecchi. Chi risponde alla sua invocazione? Solo il silenzio, al quale il Poeta affida il suo affettuosissimo addio alla sua madre lontana.


LETTERA ALLA MADRE

«Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro,
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater

Salvatore Quasimodo
(da “La vita non è sogno” 1946 –1948, in Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore 1960)

12 dicembre 2011

AI MONTI DI TRENTO, DI ALFONSO GATTO.


Nella sera i monti acquistano una particolare bellezza, appaiono più maestosi, solitari, grandi masse tinte d’azzurro. Al Poeta portano il ricordo d’altri monti, quelli rocciosi che sovrastano il golfo di Salerno, la sua città lontana. Nel silenzio placido della sera e della chiarità lunare che induce al sogno riemergono intatti i ricordi. Dolcissima la visione della madre lontana, sola in quella chiara notte d’ottobre insieme con la luna, mentre la brezza le agita i capelli sulla fronte e le case intorno vanno facendosi oscure. Un ricordo si precisa, nitido, è un momento di profonda intimità fra madre e figlio: era anche quella una sera di luna nascente, il cui tenue colore si confondeva con l’ultima luce del giorno, quando la madre gli posò le mani sul capo dicendogli vedi, a noi d’intorno il tempo s’è fermato; ed è proprio quest’indugiare delle mani della madre sul suo capo che arresta il tempo e dà a quella materna carezza un potere che supera gli anni e trasfigura d’azzurro tutto il passato.

AI MONTI DI TRENTO

Bei monti della sera
azzurra è già l'Italia.

Penso a mia madre sola con la luna
nella notte d'ottobre, ancora estiva
la brezza muove i suoi capelli, imbruna
sulle case d'intorno.

Così la chiara spera
dei monti a lungo ammalia
nei pascoli la sera.
Odora già l'Italia
di polvere e di rose.

Era la luna ancora effusa al giorno,
mia madre a lungo sul mio capo pose
le mani e disse: « vedi, a noi d'intorno
il tempo s'è fermato... ».

Bei monti della sera
azzurro è il mio passato.

Alfonso Gatto                        
Da (“Arie e ricordi” 1940-1941 in Poesie scelte dall'autore - Arnoldo Mondadori Editore 1972)

8 dicembre 2011

SU PER I MONTI HO INCONTRATO UN CARRETTIERE.


Su per i monti andavo in cerca di silenzio, ho incontrato un carrettiere, i ricordi sono riaffiorati.
La tradizione natalizia dei miei ricordi è un quadro ormai superato, quando nelle gelide sere d’inverno vedevo trafficar legna da ardere disposta ad arte sui barrocci che i montanari della costa, col capo abbassato in segno di riposo - forse sognavano - riparati da un grande ombrello se pioveva, recavano ai paesi di mare. Oggi, quella legna che ancora viene usate per riscaldar le case, non la portano più i carrettieri, ma i camionisti, ai quali non è concesso di sognare lungo le strade sempre più pericolose. Allora la vita era più dura e più povera; più facile però era per gli uomini serbare l’anima fiduciosa e serena, contentarsi anche delle piccole cose, se addirittura poteva essere oggetto di sogno la gioia raccolta che offriva in un piccolo paese di mare una povera festa di Natale.
I ricordi turbano ancor più l’inquieto cuore, mi rivedo godere appieno di quelle semplici e pure gioie.

6 dicembre 2011

DUE POESIE DI ANGIOLETTA FACCINI.

Lady  stamani

C’era un residuo di vita
Ora non c’è più

            Lady stamani ha lasciato il corpo
            Lady stamani ha varcato la soglia
            di coloro che hanno lasciato il corpo

Da stamani la mia dolcissima lupa
viaggia, corre nelle Celesti Praterie

Da stamani lady è volata via
e s’è spento in me ogni contatto

22 ottobre 2011


Al mio Sonno Eterno

Alla mia morte 
gl’amici se tali furono m’accompagnino 
dappresso agl’addetti
che mi porteranno alla sala
del Commiato
e mi leggano una poesia
di Prevêrt o Neruda o Baudelaire
o una mia poesia

            In quel mio Sonno Eterno prima che il mio corpo
            varchi la stanza della cremazione
             il commiato sia
            di semplice saluto
            e non sia fatta funzione

nel Giardino della Memoria
o in un bosco siano sparse le mie ceneri


7 novembre 2011


Angioletta Faccini

1 dicembre 2011

DICEMBRE: LA MADRE, DI GIUSEPPE UNGARETTI.

Dicembre è il mese da me sempre più amato, il mese del Natale, la dolce atmosfera che fanciullo respiravo nella mia casa sul mare, mare tormentato e immenso, rivedo il viale, il volto di mia madre che con tanta cura preparava dolci per i suoi figliuoli. Ne sento il profumo. Ora, inquieto cuore, tutto è mutato. 



"La madre" fa parte della raccolta poetica "Sentimento del tempo" del 1933, un’opera importante per il Poeta, non solo sul piano personale, ma soprattutto sul piano letterario, specificamente metrico. Il Poeta, dopo la frantumazione ritmica delle prime poesie, ricompone il verso utilizzando l'endecasillabo e il settenario.
Da notare, all’inizio del primo verso, l’inversione sintattica volta a dare più risalto al termine anteposto, il “cuore”; con questa figura retorica il Poeta rafforza il concetto d’una continuazione  d’un intimo colloquio a voce alta  che da sempre ha avuto con la propria madre.
Quando il cuore, cessando di battere, avrà fatto cadere il muro d’ombra, cioè avrà provocato la morte del corpo e fatto sparire il mistero che avvolge la nostra esistenza, il Poeta vede la madre in atto di attenderlo, sulle soglie dell’eternità, gli darà la mano, ancora una volta, per guidarlo sino al Signore. Con decisione e semplicità, supplice chiederà il perdono per il figlio, sarà immobile, come statua, pregando con la stessa intensità e la stessa fede che aveva quand’era ancora vivente sulla terra. La supplica s’eleva in preghiera alta e sublime nell’atto di alzare le tremanti e vecchie braccia, il medesimo gesto di fiducioso abbandono col quale ella si offrì a Dio nel momento della morte corporale. E soltanto quando il figlio sarà perdonato, ella, dopo averlo tanto atteso, s’abbandonerà alla suprema gioia di guardarlo, mentre negli occhi passerà veloce il sorriso d’una infinita felicità.


LA MADRE

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all’Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

Giuseppe Ungaretti
(da “Sentimento del tempo” 1930)
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