17 dicembre 2010

IL PRESEPE NAPOLETANO DEL SETTECENTO.

Questa foto grande non si riferisce al presepe Cucciniello, bensì ad una pregevole opera del M° Luigi Baia di Napoli, esposta nel Duomo di Napoli. Bellissima e suggestiva!
Il presepe napoletano raggiunge il massimo valore religioso e artistico nel Settecento.
Nascono pastori e pastorelle che indossano i costumi del tempo come riferimento all’interesse per la vita semplice dei campi, un sentimento di una natura benevole e incantata e l’immagine romantica degli umili, sana e innocente, in contrapposizione ai ceti più elevati, frequentatori della vita agitata delle corti in una società ormai troppo civile e sazia.
L’Annunzio degli angeli è incentrato su qualche capanna rovinosa, animato da pecore, capre e bovini nei più vari atteggiamenti, e da rustici pittoreschi e miserabili, da una forte caratterizzazione dei personaggi intenti alle più svariate occupazioni, dal macellaio al ciabattino, dal pescivendolo al venditore di frutta e verdura, dove spesso primeggia la polpa rossa dell’anguria spezzata.
La Natività è il centro della composizione presepiale, con cura tutta barocco, posta al riparo di tettoie di paglia e di travi collocate tra cadenti rovine di templi, ove s’annida una rigogliosa vegetazione selvatica, simbolo  della fine del mondo antico e l'avvento d’un mondo nuovo, la speranza d’un luogo migliore.

(Le immagini qui riproposte sono tratte dal famoso presepe Cuciniello, che deve il nome al suo donatore Michele Cuciniello, appassionato collezionista di pastori ed oggetti del Presepe Napoletano del XVIII secolo).

11 dicembre 2010

IO, PER ME, AMO IL VERO PRESEPE!

Quand’io ascolto musica classica o lirica, mi adagio sulla poltrona e chiudo gli occhi, e la musica mi fa salire in alto, mi trascina, mi porta con sé nel mondo supremo delle emozioni, mi regala calde percezioni d’una vita che non è quella che siamo costretti a vivere. Allora recupero linfa vitale, vedo il mio mondo molto più in là delle miserie umane e dei suoi sentimenti contradditori. Vivo una vita fuori dalla vita di tutti i giorni.
S’avvicina la festa del Natale, la festa dell’intimità, della riflessione. Quanti ricordi riaffiorano dall’infanzia, che rileggo ammirando i presepi e i pastori napoletani.
Ma forse non tutto è più come quel tempo, e come mi dispiace prender atto che proprio a Napoli, nella terra dei presepi tradizionali, taluni artigiani costruiscono pastori con visi di protagonisti presi dall’attualità in tutti i campi, dalla politica alla triste cronaca, rendendo un autentico oltraggio alla vera arte presepizia, distruggendo quella poca suggestione che è rimasto del capolavoro dell’animo che è il presepe.
È mio desiderio lanciare, da questo mio modesto blog, un caloroso appello a questi produttori di “statuine” che nulla hanno a che fare con la festa del Natale e del presepe: fermatevi, vi prego, che non si riduca il presepe ad un’affannosa carnevalata.
Cerchiamo, invece, di conservarne intatta la poesia.

Antonio Ragone

10 dicembre 2010

EDOARCO CILLARI: TRADUZIONE DELLA MIA POESIA “LAVACRO” NELLA LINGUA SERBA.


Caro Antonio, ho adocchiato la splendida poesia “Lavacro” e… mi sono messo di buzzo buono per tradurtela in serbo… te la mando, spero che ti piaccia, e, se vuoi, puoi anche postarla sul blog.

PRANJE (Lavacro)

Baš se sad, kod noci, sećam,
dubokog horizonta, tu, na kraju mora , 
bljestaše, kad ga ja promatrah,
a more, samo za mene , svoja svetla upaljaše.

U tajni dubokoj dalekih dana,
zora i galeba od gladi izbezumljivih,
jos crvenijih zalazaka krvlju i srcem
čoveka koji , za svoj život, talase izaziva,

e, to su moje misli u ovoj kišnoj noći,
o obilnoj kiši koja nemilice pada,
blatnjave zemlje  nebesko pranje.

I sad se sećam, u dalekim vremenima,
u zadnjoj ruti  umirućeg dana,
tmurnog  horizonta, tu, na kraju mora,
koji purpurno  plamtijaše  od krvi i smrti.

Traduzione in serbo di Edoardo Cillari

Caro Edo, ti ringrazio dal più profondo del cuore per la tua sicuramente eccellente traduzione della mia "Lavacro" in serbo. Antonio Ragone 

6 dicembre 2010

ANTONIO RAGONE: LAVACRO.





LAVACRO

Ora ricordo presso la sera
il largo orizzonte alla fine del mare,
bruciava quand’io l’osservavo,
il mare solo per me accendeva le luci.

Nel vasto mistero di giorni lontani,
di albe e gabbiani irrequieti di fame,
di occasi più rossi di sangue di cuore
di un uomo per vita che sfida i marosi,

io penso di questo in una notte piovosa,
alla pioggia abbondante che scende incurante,
celeste lavacro di terra infangata.

Ora, ricordo, nei tempi lontani,
nell’ultimo tratto d’un giorno morente,
un cupo orizzonte alla fine del mare,
che ardeva di rosso, di sangue, di morte.

Antonio Ragone (Da “L’isola nascosta” Akkuaria Edizioni 2007)

1 dicembre 2010

GIUSEPPE UNGARETTI: PARAFRASI DELLA POESIA “NATALE”.

 
 È Dicembre! Il mese del Natale.
Quanta pioggia, vento, freddo in questi giorni.
Mi pare cosa densa di fascino aprire questo mese con un grandissimo poeta, una sua poesia sul Natale e il tepore d’un focolare.




(Antonio Ragone, da “La Passione degli Apostoli” Akkuaria Edizioni - 2008)

Le poesie della raccolta ungarettiana “Allegria di Naufragi”, apparsa nel 1919 e diventata, nel 1931, “L’Allegria”, sono la scoperta che tutto, consumandosi nel tempo, non è che naufragio, essendo l’allegria un istante fuggitivo; da qui, la consapevolezza che l’allegria può dimorare semplicemente nell’attimo, e solo l’amore, nascosto ne “le quattro capriole di fumo del focolare” può porgere un momento d’intima pace, ritrovata il 26 dicembre del 1916 durante una licenza che Ungaretti trascorse a Napoli in casa di amici; è una tregua dalla guerra, quando l’uomo straziato dal dolore per la morte dei compagni trova riparo nel “caldo buono”, in contrapposizione alla confusione delle strade.

NATALE

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Napoli, il 26 dicembre 1916

(Giuseppe Ungaretti)

PARAFRASI:

È Natale, nelle strade c’è freddo e confusione, il poeta non ha voglia di immergersi nell’intreccio, simile a gomitolo, delle strade di città e nel disordine della folla, straordinariamente intensa nel periodo natalizio. Ha soltanto il desiderio di starsene solo, di essere dimenticato, da tutti, come una “cosa posata” in un angolino della stanza. Il poeta si sente stanco, non è tanto stanchezza fisica, quanto stanchezza dell’animo, e sente forte il desiderio di starsene solo, in lontananza completa dal mondo. Nell’angolo accanto al focolare egli non sente che il tepore della fiamma che riscalda il suo corpo, ma soprattutto il suo cuore. Resta solo e tranquillo a seguire con la fantasia gli anelli di fumo, simili a capriole, che si alzano dai ceppi ardenti, nella calda intimità della casa, senza frastuoni, ad ascoltare la voce segreta dell’anima, in uno stanco abbandono, per ritrovarne la pace. (Antonio Ragone)

25 novembre 2010

ANGIOLETTA FACCINI: UNA BELLISSIMA LIRICA DEDICATA ALLA POESIA.



Angioletta mi ha inviato questa sua bella poesia che ben volentieri offro in lettura  ai visitatori del blog.


Poesia


Poesia
tu mi tormenti
infliggi una pena al mio animo!
m’obblighi ad esternare
quel che è sopito sotto la veste dell’anima
mi tormenti
con sublime languore
lascio una scia sul mio passo
lascio il sapore agrodolce della confessione
del sentimento esternato
mi tormenti e mi costringi
e languida resto sulle fresche righe vergate
perché così tu vuoi che sia


 21 novembre 2010

Angioletta Faccini

19 novembre 2010

ANTONIO RAGONE: AMAREZZE INCOMPIUTE.




AMAREZZE INCOMPIUTE

 
Amarezze anch’esse incompiute
dimorano nei meandri del mistero
eppure l’amore un poco esiste
che resiste alle intemperie umane.
È questa incomprensibile dissonanza
che lacera i rapporti e ti fa solo
chiuso in un tormento che ti schianta
sotto il peso dell’indefinibile.
E sono stanco, come una barca abbandonata
all’onde, sogno un prono riposo sulla rena. 

Antonio Ragone (Da I passi sul sentiero sconosciuto 'Verso marie sponde' Giovane Holden Edizioni 2010)

16 novembre 2010

ANA CALIYURI: TRADUZIONE IN SPAGNOLO DELLA POESIA "GINEPRAIO".


Carissima Ana,
grazie per questa tua pregevole traduzione della mia poesia “Ginepraio”.
Felice della tua amicizia e della collaborazione artistica che si è creata tra noi.
Ti abbraccio con affetto, amica poetessa.
Antonio.




GINEPRAIO

El frío de noviembre que ya me invade
sin que me percate en la húmeda esfera
me azota me resiente y me subleva
un poco del peso acumulado en el año
que ya aquí en breve me dejará como de costumbre
en este engaño de la esperanza infinita
encerrado en la maraña de sentimientos
tantos tantos tantos a la luna así lejana
pero ahora tan cercana que cada tanto la miro
como juego como bella como misteriosa hora usual
compañera indiferente de mis años
encerrados en otra dedicación.
Que así sea, todo me es ya insensible desprendimiento,
también el dolor, si no el sueño inquieto
de mis noches y el tormento de sus silencios
que se agitan en mi cansancio indiferente.
En mi maraña de sentimientos aún logro
beber sorbos ásperos que, si bien marginan el flujo
de la sangre a los arbustos espinosos, el jugo rojo
de un vino de mi tierra y el mar.


Traduzione di Ana Caliyuri

15 novembre 2010

ALFONSO GATTO, POETA SALERNITANO, UN GRANDE DEL NOVECENTO ITALIANO.


Alfonso Gatto nacque a Salerno il 17 luglio 1909,  figlio di una modesta famiglia di piccoli armatori, e morì prematuramente il 6 marzo 1976 in un incidente stradale nei pressi di Orbetello.
Dopo un’infanzia spensierata e un’adolescenza burrascosa, frequentò l' università poi disertata. Lavorò come commesso, precettore in un collegio, correttore di bozze e giornalista. Nel 1938 fondò a Firenze con Vasco Pratolini la rivista letteraria "Campo di Marte". Le sue liriche si distinguono per la musicalità dei suoi versi che narrano d’amore e di sofferta quotidianità, dove all’impegno civile si unisce il ricordo nostalgico dell'infanzia e della sua terra d'origine. Il suo linguaggio è spesso limpido, musicale, si sviluppa passando attraverso un appassionato lirismo umanitario, fino al raggelarsi della parola nella riflessione della morte e del mutamento misterioso della vita e della sofferenza dell’umanità.

Con Alfonso Gatto voglio ricordare la Poesia, oggi forse troppo lontana dalle esigenze di questa società inquinata senza punti di riferimento, i valori buttati alle ortiche, voglio ricordare i Poeti che hanno fatto grande la cultura del Novecento italiano e oggi ingiustamente dimenticati.

E, ricordo nei ricordi, desidero farlo con un poeta con il quale abbiamo condiviso la stessa terra e lo stesso mare, lo stesso umore della nostra gente.

Alfonso Gatto, poeta salernitano, nato nello stesso rione dove nacque mio padre, forse chissà quante volte si saranno sfiorati guardandosi negli occhi, quelli d’un azzurro mare del poeta e quelli color di rame di mio padre, scambiandosi qualche parola. (Antonio Ragone)



“Quando si nasce poeti,
l'amore e la morte si fanno compagnia,
e tutti e due hanno le tasche bucate
per non contare gli anni.
Quando si nasce poeti,
è difficile morire; o è soltanto una distrazione.
E io sono nato poeta per quel sorso di libertà,
per quella nuvoletta d'anice.
Io sono nato poeta,
in un'epoca critica in cui i valori sono tutti in discussione,
in cui i valori sono tutti da definire.
Il poeta è un uomo mortale che vive con tutta la sua morte
e con tutta la sua vita, nel tempo,
e in sé si consuma e si sveglia,
negli altri si popola e si chiama, e nulla possiede
che non abbia già amato e perduto”.          

(Alfonso Gatto)

La costiera d’Amalfi

La strada che da Vietri a Capodorso
a Minori, ad Amalfi sale e scende
verso il mare di Conca e di Furore
è strada di montagna: vi s’arrende
la luce che nel trarla dosso a dosso
ai suoi spicchi costrutti trova il fiore
del lastrico deserto, la ginestra.
E l’ombra passa a approfondire il verso
dei suoi displuvi, l’onda dei tornanti
alle case di vetta: una finestra
dai vetri d’alba s’apre per l’oriente
alla breva serale.
Calma fragranza, il sonno nel riverso
meriggio è già l’amore,
un frascheggìo di pergole di scale
e di voci passanti,
il fumo di chi vive col suo niente
una giornata d’aria.


Alla mia terra

Io so che nulla potrà mutare
il nero della mia gente,
il soliloquio scende
come una sera di scirocco
e non ha ragioni, non ha patria.

Io so che nulla potrà spiegare
la testa dura dei bam­bini,
mia madre non sa calmarli,
scende per i vicoli la stel­la,
e d'ogni casa
pare che venga e sia lontano il mare.

Io so che nulla si consuma
e profumo di mura e vec­chie notti
un vento solitario come ardendo
nelle donne trabocca. Le rovescia
nella polpa degli occhi il solleone.

Anneriscono ardendo. Lo spiraglio
delle notti festose, il brulichìo
dei gioielli di voto, in un biroccio
di sonagli dirupa.
Io so che il corpo ammala ove l'abbaglio
d'un ritratto è funesto,
il fuochista d'argento stralunato
nella stanza del porto.
Il mare ventilava ì suoi capelli.

Io so che nulla potrà mutare
il cuore della mia gente,
il pianto dentro i muri nella sera,
i paesi violati da un respiro
di vento appena.

I morti nuovi brucerà l'estate,
fumerà l'azzurro
dai ruderi che l’afa slarga dal mare.

Ossessa ossessa,
mia terra fedele al soliloquio
Che sale incontro ai monti e le gramaglie
trascina, le sue colpe,
l’innocenza ferita come un figlio.


A mio padre

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
<< Com’è bella notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno
>>. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.


Torneranno le sere

Torneranno le sere a intepidire
nell’azzurro le piazze, ai bianchi muri
la luna in alto s’alzerà dal mare
e nella piena dei giardini il vento
fitto di case, d’alberi, di stelle
passerà per la grande aria serena.
Torneranno nel sogno anche le voci
delle famiglie illuminate a cena,
la rapida ebrietà del loro riso.

O finestrelle, pozzi, logge, vetri
attaccati alla vita, allo spiraglio
delle fresche delizie e dei rimpianti,
o luna nuova sulla mia memoria,
tornate ad albeggiare con quel canto
di parole perdute, con quei suoni
struggenti, con quei baci morsi al buio.
Siate la polpa rossa dell’anguria
spaccata in mezzo alla tovaglia bianca.


L’alba

Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba.
Si staccano i convogli, nella piazza
bruna di terra il verde dei giardini
trema d’autunno nei cancelli.
È l’ora fioca in cui s’incide al freddo
la tua città deserta, appena un trotto
remoto di cavallo, l’attacchino
sposta dolce la scala lungo i muri
in un fruscìo di carta. La tua stanza
leggera come il sonno sarà nuova
e in un parato da campagna al sole
roseo d’autunno s’aprirà. La fredda
banchina dei mercati odora d’erba.
La porta verde della chiesa è il mare.


Caffè del porto

Il cane ha freddo e silenzio.
Solo come il cuore.
I marinai se ne sono andati,
da una mano all’altra passavano il berretto.
E la sposa stucchevole si gira
dentro lo specchio e mai si sposerà.
La pioggia spoglia gli anni
e la Vergine invecchia
col suo latte giallo.
Il cane ascolta il cuore
e il Sud è malinconico
come un vecchio confetto.


Io penso ai morti

Nella pioggia che batte e scioglie i cieli
– i grandi cieli all’improvviso soli –
io penso ai morti. Udranno a lungo i treni
chiamare in sogno le città perdute
e dare ai nomi dell’addio la voce
che resta della sera.

Sei, a chiamarti, il nome delle sere
che non risponde, ma potresti avere
bisogno del racconto, d’una voce,
per questa pioggia che ti fa più sola
dei lumi senza requie.
                                     Tornerai
dalla musiche morte, dalle gronde
dei tuoi mattini, amore che riprendi
dal naufragio l’ala del tuo volo. 

Alfonso Gatto

10 novembre 2010

LETTERA DI UN RAGAZZO AUTISTICO.





Il 13 dicembre del 2008, fui invitato a Vietri sul mare, mio paese natale, dove, tra l’altro, ebbi  incontri con le scuole e gli studenti.
Un ragazzo autistico mi pose una domanda sul perché del dolore.
In silenzio, mi consegnò una busta con una lettera.
La tengo tra le cose mie più preziose.
Dopo quasi due anni, la pubblico qui, lasciando spazio solo alle sue parole.

LA PECORA POVERA

C’era una volta una pecora
che prima aveva molti amici
ma che alla fine diventa povera.
Il motivo che aveva perso molti amici
non è stato un lupo maligno
ma i suoi amici lo hanno deriso così “gna, gna!”.
E così lei diventò mogia mogia
e non c’è nessun modo
per liberarsi da questa magia
per fare in modo
in cui tutti i suoi amici
torneranno a stare vicino vicino.
Dopo qualche anno
riuscì a trovare il sistema.
Un giorno lui si avvicinò ai suoi amici
e cercando di essere più furbo di Golia
riuscì a riacquistare l’amicizia
di tutti.

Ad Antonio Ragone
Con affetto

Dicembre 2008

9 novembre 2010

ANGIOLETTA FACCINI: SUONI.


Buona... notte Antonio!
 
t'invio questa mia poesia di questa tarda sera.
 
Non sono ancora in grado di spiegare quest'ultima, che è nata ascoltando con la cuffia un suono buddista, forse davvero un canto dell'anima!





Suoni
 

Ascoltare
gioire e commuoversi
ai suoni d'una musica celestiale
ascoltare e dimenticare
un istante
la mente attiva
ascoltare e dondolarsi
all'unisono con suoni
di melodia soave
senza prevalenza di colore
di suono
senza prevalenza di suoni
e d'emozioni
tutt'uno con l'Universo
Essenza assoluta

5/11/2010

©  Angioletta Faccini

5 novembre 2010

ANTONIO RAGONE: GINEPRAIO.






GINEPRAIO

Il freddo di novembre già mi riprende
senza che m’accorga nella sua umida sfera
mi sferza mi adombra e mi solleva
un poco dal peso ammassato nell’anno
che già qui a breve mi lascerà come abituale
in questo inganno d’un’infinita speranza
racchiuso nel mio ginepraio di sentimenti
tanti tanti tanti fino alla luna così lontana
ma ormai così vicina che da tanto la miro
come gioco come bella come misteriosa ora usuale
compagna indifferente degli anni miei
racchiusi a breve in un altro compimento.
Che così vada, tutto ormai m’è insensibile distacco,
anche il dolore, se non l’agitato sonno
delle mie notti e il tormento dei suoi silenzi
che s’agitano nella mia stanchezza indifferente.
Nel mio ginepraio d’anni riesco ancora
a bere sorsi aspri che pur emarginano il flusso
del sangue agli spinosi rovi, il succo rosso
d’un vino della mia terra e il mare.

Antonio Ragone 
(Da “ I Passi sul sentiero sconosciuto 'Verso marine sponde ' - Giovane Holden Edizioni – 2010)

1 novembre 2010

RENATO FILIPPELLI: PLENILUNIO NELLA PALUDE.

La poesia di Renato Filippelli, nato nel 1936 a Cascano di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, e morto a Formia, in provincia di Latina, il 20 maggio 2010, poeta alla cui memoria sono molto affezionato, è fatta di versi duri come la sua terra del Volturno, senza infingimenti, autentica e sofferta nel suo particolare rapporto con Dio. La terra nativa torna a vivere nell’anima del poeta con le tradizioni millenarie della sua gente. Ma non v’è dolcezza di ricordi, bensì malinconica visione autunnale dove s’avverte il presagio dell’inverno imminente, della morte che grava su tutto; i colori rosso-dorati sono esteriori, ossia fugaci, con una bellezza caduca e una vitalità solo apparente, dominata dall’invisibile lamento d’un vento sulla natura malata. È l’espressione intensa d’un sentimento profondo e disperato di pena, di dolore e di morte che s’intreccia a finissime immagini che pretendono la presenza del Supremo che sembra così lontano, indifferente al nostro dolore di creature umane. Altro conforto con c’è se non la speranza riposta nei mormorii della conchiglia di Dio e una terra di vendemmia saccheggiata e triste ove alta si eleva la mano dello stesso Dio a benedirla.

In questo blog:





MURMURI

È la festa dei morti. La speranza
ha ricamato di lumi
la collina di San Felice; Tu
m’accompagni, fissi
convegni fra le croci.
Hai nelle mani una conchiglia
di murmuri e l’accosti alle mie orecchie.

IL CRISTALLO

Vendemmia. Ora è un saccheggio taciturno.
Non v’è più gioia nell’uomo della terra.
Ricordo a qualche vecchio le giulive
canzoni di corrispondenza
fra i colli e questa valle di vigneti.
Allora vita e morte maturavano
nel sacro, e la natura
era il cristallo dove l’occhio intento
del contadino disegnava l’ombra
della Tua mano tesa a benedire. 

Renato Filippelli

(Da "Plenilunio nella palude" - Liriche - Edizioni Scientifiche Italiane, 1997)

26 ottobre 2010

GIOVANNI PAPINI: PARAFRASI DELLA POESIA “VIOLA”.


Giovanni Papini nacque a Firenze il 9 gennaio1881 e morì nella stessa città l’8 luglio 1956 è stato uno scrittore italiano: un intellettuale vivace, narratore, poeta, saggista, scrittore versatile e fecondo. Scrisse, tra l’altro, Un uomo finito, Stroncature e un’apprezzata Storia di Cristo. Insieme a Enzo Palmieri scrisse una pregevole Antologia per le scuole medie Il bel viaggio. Papini fu più grande scrittore che poeta, e questa poesia, seppur sfiorata da retorica, ha versi delicati e colorati, piacevoli a leggersi.

Un ricordo personale: su questa pregevole antologia ho studiato anch’io. Purtroppo è andata persa durante un trasloco. Ne resta, suggestivo, il ricordo degli anni miei primi.


 
VIOLA

Viola vestita di limpido giallo,
     che festa, che amore, a un tratto scoprirti
     venire innanzi con grazia di ballo
     di tra i ginepri e l’odore dei mirti!

La ricca estate si filtra e si dora
     sopra il tuo piccolo volto rotondo;
     ad ogni moto dell’iride mora
     bevi nel riso la gioia del mondo.

Par che la terra rifatta stamani
     più generosa, più fresca di ieri,
     voglia specchiarsi negli occhi silvani
     tuoi, risplendenti di casti pensieri.

Al tuo venire volante s’allieta
     questo mio cuore e con Dio si rimpacia
     l’arida bocca del padre poeta
     torna a pregare allorquando ti bacia.


Giovanni Papini


Improvvisa, di tra gli alberi del viale, appare al poeta nella calda luce dell’estate, Viola, la figlia diletta. Vestita di limpido giallo, col passo agile e lieve che ha la grazia della danza, la fanciulla avanza in mezzo al profumo del giardino. Al suo apparire, la terra si è fatta più fresca e più festosa, e sembra volersi specchiare nei suoi limpidi occhi. In quella cornice luminosa i rami verdi e di luce dorata, la figlia appare al padre che la contempla con orgoglio affettuoso, un’immagine di bellezza e di felicità: il contemplarla lo induce ad elevare l’anima a Dio, a ritrovare le parole della preghiera dimenticata.

19 ottobre 2010

ANTONIO RAGONE: DEDICATA AL MARE, CON LA TRADUZIONE IN SPAGNOLO DI ANA CALIYURI.



Dalla casa (lontana) di quel mio tempo, osservavo questo mare.



DEDICATA AL MARE

Lo so perché m’incanti,
mare, e i sensi turbi.
Tu espiravi frangenti sui tuoi sassi
sciabordando il tuo schiumoso fiato.

E quando s’era l’onda infranta,
minaccioso e indolente,
l’escrescenza placata,
infastidito inspiravi

nell’ansia d’un fragoroso
silenzio, nuovamente
ti riavvolgevi scagliando
le tue rabbie sul braccio
dell’incompiuto porto.

E io aspiravo che non finisse mai
la tua pacifica smania.


Antonio Ragone (Da “ I Passi sul sentiero sconosciuto 'Verso marine sponde '– Giovane Holden Edizioni – 2010)


Ana Caliyuri, poetessa argentina, mia cara amica, l’ha tradotta nella sua lingua.
Le sono profondamente grato per questo suo dono.


DEDICADA AL MAR

Sé porque me encantas

mar, y los sentidos turbados.
Tu expirabas circunstancias sobre tus rocas
lamiendo tu espumoso aliento.

Y cuando se quebraba la ola ,

amenazante e indolente,
la excrecencia aplacada,
fastidiado inspirabas

en el deseo de un fragoroso

silencio, nuevamente
te desenrrollabas lanzando
tu enojo sobre el brazo
del incompleto puerto.

Y yo deseaba que nunca acabase

tu pacífica inquietud.


Traduzione di Ana Caliyuri

16 ottobre 2010

LA BELLEZZA DELLA COSTIERA AMALFITANA VIOLATA DAI SARACENI.

Per tutto il Medioevo le coste tirreniche furono infestate da scorribande saracene che mettevano a ferro e fuoco i paesi rivieraschi.
Al suono delle campane e al grido de “li turchi so’ sbarcati alla marina” la popolazione veniva assalita da brividi di terrore.  Quel suono e quel grido significavano presagio di morte, stupro, saccheggio, distruzione. Non bastarono gli scogli, le murate ed il mare a fermare la terribile forza devastante degli invasori.
I saraceni si erano dimostrati padroni assoluti della costa amalfitana.  
Si racconta che in una notte calda e silenziosa, la notte che precedeva la festa di san Giovanni Battista, patrono di Vietri sul mare, i pescatori e i contadini dormivano dopo le fatiche del mare e dei campi, dormivano le donne, abbracciate ai loro bimbi, dopo le fatiche della casa; tutto era quiete, s’avvertiva solo il mormorìo del mare.
Ma in quella notte un vascello a luci spente avanzava lentamente verso la costa, si preparava un rituale sempre temuto e ormai consumato da anni di incursioni e scorribande. Una ciurma di saraceni, armati di spade e di fiaccole, sbarcava fra i piccoli seni della parte meridionale al di là del piccolo promontorio della baia, un’altra sbarcava nella parte settentrionale della spiaggia nascosta tra le insenature dei monti.
È un attimo, anche se preparati ormai da secoli a questi attacchi, gli abitanti del luogo vengono assaliti dalla furia dei saraceni, protetti dal silenzio e dalla pur vigile calma notturna. È la devastazione, nessuno è in grado di poter difendersi, è la notte degli agnelli, sgozzati, avvinti, tormentati.
Ed intanto, il fuoco alto arde su tutto riflettendosi nell’azzurro del notturno e placido mare: bruciano le viti, ardono i gozzi, brillano nella notte i casolari in fiamme, la costa si tinge del sangue che scorre veloce dalle arse gole. La distruzione è compiuta, le navi saracene ora ripartono, lasciando pianti e lamenti dei superstiti. Ma ritorneranno.

Più non ti raccolgo, mare,
nel cavo della mano,
ma quando mi riscopro
a rimirare altrove,
la tua immagine sento.
Antonio Ragone

13 ottobre 2010

SALVATORE QUASIMODO E LA POESIA DELL’ESILIO: BREVI PARAFRASI DI “VENTO A TÌNDARI” E “ALLE FRONDE DEI SALICI”.

Salvatore Quasimodo nacque a Modica, in provincia di Ragusa il 20 agosto 1901 e mori a Napoli il 14 giugno 1968, dove fu ricoverato d’urgenza in ospedale in seguito ad un improvviso malore, mentre si trovava ad Amalfi a presiedere un premio letterario. Visse per lungo tempo a Milano.
Il suo percorso poetico si apre con la raccolta Acque e terre (1930), dove vengono imposti alcuni temi sostanziali della successiva produzione. La raccolta si muove tra la rievocazione di una mitica e serena, seppur sofferta, infanzia nella lontana Sicilia e un senso di un doloroso vincolo d’esiliato, dovuto a un dolorosissimo sradicamento dalla propria terra: a me piace utilizzare il termine “i poeti dell’esilio”, nonché ermetici non ortodossi, che comprendono, oltre Quasimodo, il salernitano Alfonso Gatto e il lucano di Montemurro Leonardo Sinisgalli.
Questa condizione provoca nelle liriche quasimodiane un senso di debolezza per il rimpianto di una primitiva innocenza e di una perduta comunione con i luoghi lontani. In me un albero oscilla, scrive a Milano riferendosi agli alberi di eucaliptus della sua terra d’origine, emblematica considerazione tesa a concretizzare  la malinconia dell’esule, un senso del male di vivere, angosciosa solitudine esistenziale e un’ansia di infinito e di assoluto.
L’irrompere tragico della guerra conduce il poeta ad una revisione della sua poetica, incidendo soprattutto sui contenuti, come si avverte nelle raccolte Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è un sogno (1949). Unificando la tragedia della guerra e la cultura italiana, Quasimodo scrive:  
La guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori dell’uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, più delle scienze e degli accordi tra le nazioni che possono essere traditi.




VENTO A TÌNDARI

Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Salvatore Quasimodo

L’essenza tematica della lirica nasce dalla conflittualità, sempre presente in Quasimodo, tra la memoria dei paesaggi dell’infanzia siciliana e l’aspro esilio.
Ora il suo pensiero va a Tìndari, un piccolo promontorio vicino Messina a picco sul mare, di cui la memoria della cara fanciullezza ha fissato nell’anima un luogo quasi mitologico, un arcano e lontano angolo di serenità; ma nella maturità pensosa appare inquieto ed aggressivo, sferzato dai venti del dio Eolo. Risalgono al cuore il ricordo degli amici contrapposto all’amara affermazione che a quei luoghi amati è ignota è la terra / ove ogni giorno affondo.




ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
  
Salvatore Quasimodo

L’immagine di straordinaria bellezza e potentemente suggestiva di questa lirica è di derivazione biblica e si riferisce all’episodio degli ebrei che in schiavitù a Babilonia, si rifiutarono di cantare le lodi a Dio in terra straniera. Così l’avvenimento è riportato nel Salmo 136: Sui fiumi di Babilonia, / là sedevamo piangendo / al ricordo di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre. / Là ci chiedevano parole di canto / coloro che ci avevano deportato, / canzoni di gioia, i nostri oppressori: / «Cantateci i canti di Sion!». /Come cantare i canti del Signore / in terra straniera?.
Anche gli italiani dagli anni ’43 e
45 vivevano nelle stesse condizioni di servitù e dolore.

6 ottobre 2010

SALVATORE QUASIMODO: COME LE FOGLIE, DA MIMNERMO.

La poesia di Salvatore Quasimodo, uno dei massimi poeti italiani del Novecento, trae un elemento di chiarificazione dalla traduzione dei Lirici greci apparso nel 1940. Con queste traduzioni egli non ha inteso restituire alla poesia greca  le sue forme originarie, bensì rivestirla di una forma moderna. Queste versioni, pertanto, devono collocarsi nell’area creativa di Quasimodo, perché il poeta riesce a conferire al testo originale una nuova e personale scrittura. Propongo, a introduzione di un prossimo post giustamente dedicato al grande poeta siciliano e alla sua alta poesia d’esiliato, questa pregevole traduzione da Mimnermo, poeta greco appartenente alla prima metà  del VI secolo a.C., del quale, pur essendo poeta famoso, ci restano solo pochi frammenti, tra questi “Come le foglie”, che ci dice com’egli cantasse le dolci gioie della vita con un senso di malinconia per l’amara consapevolezza della loro caducità. Dolce la giovinezza, ma breve, come la luce di un giorno sulla terra. E quando il suo tempo è dileguato meglio morire, dice mestamente il poeta, che vivere. L’uomo si rallegra delle gioie che a volte offre la giovinezza, vivendo spensieratamente per bene degli dèi. Ma le Parche (le nere dee), che per i greci rappresentavano le dee del destino cui erano affidate le sorti della vita umana, camminano a fianco degli uomini, determinando la brevità vita come in una luce d’un giorno. La conclusione è amara, propria della concezione pagana della vita: non c’è altra gioia se non quella legata alla vita dei sensi.
È evidente che da questa Quasimodo trasse ispirazione per la sua poesia del 1936:
 
         ED È SUBITO SERA
 
         Ognuno sta solo sul cuor della terra
         trafitto da un raggio di sole:
         ed è subito sera.



COME LE FOGLIE  (di Mimnermo)
 
Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età,
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
Ma le nere dèe ci stanno a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.

Traduzione di Salvatore Quasimodo
(da Lirici greci)

1 ottobre 2010

ISTANTI DI VITA: IL SOGNO DOVE CADE È DA SAPERE.

La vita non è un che un sogno spezzato sotto il peso delle ansie giovanili, proprio quando, nell’alba d’un giorno primaverile, ci si appresta a percorrere un viaggio, che appare naturalmente incerto, lungo una via spoglia di luoghi sicuri, timorosi di non incontrarli mai, giacché il viaggio della vita non è mai facile, pur accettando una sfida impari, scegliendo di lottare senza cedere ad inconsistenti lusinghe d’una società disattenta e edonistica, impegnando l’esito d’una ricerca, un coraggio perso e ritrovato per affrontare la vita, Da anni ormai ho capito che il silenzio fa rumore e ogni giorno si vuole imparare a cadere per rialzarsi senza troppe ferite, rimettendosi continuamente in gioco, cercare e scoprire istanti dove i sogni cadono senza comprenderli, in un circuito vitale dove il mare è immenso come una suggestiva voglia di libertà.
E quanta speranza nei nostri discorsi rivolti al domani, quel domani che è già passato, e siamo ritornati all’oggi. Strana è la vita, che ci illude spesso, ci prende per la giacca e ci porta dove vuole, in quel momento, nemmeno ce ne accorgiamo. Poi… poi, d’un tratto mi sovvengono i volti dei tanti amici che hanno attraversato la mia vita, in special modo di quelli giovanili, e ne definisco il valore che tuttora appare autentico ed essenziale, avendo condiviso insieme tante piccole gioie e, perché no, le illusioni e le delusioni del nostro tempo, che custodisco gelosamente nelle fotografie in bianco e nero che spesso vado a visitare. Ebbene, i ricordi di quella nostra giovinezza mi hanno aiutato a portare avanti la vita, soprattutto nei momenti difficili che spesso ho incontrato lungo il mio percorso.


SCOPRIRE UN ISTANTE

Scoprire un istante che ci sveli
la parola d’ordine nascente,
la proposta incantata dei tuoi sensi.

Abbeverarci all’argine della sorgiva pura,
con la luna che bianca ci regala
la sua faccia riflessa nella sete.

Il sogno dove cade è da sapere,
questo mutar del cuore,
il filamento che non regge.


 Antonio Ragone (Da “Viaggi verso il porto” Gabrieli International Editor 2004)

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