18 giugno 2011

IO HO GIOCATO CON I COLORI DEL MARE.

Molto più in là di dove poteva giungere l’occhio, verso l’infinito, e ancora ancora più in là, oltre l’orizzonte, verso l’indefinito,  dove ancor più s’inquieta il cuore, si distendeva tremolando l’azzurra acqua marina.
Io  l’osservavo per fare il gioco dei colori.
Sì, indovinare, o forse solo immaginare, quante infinite sequenze di colori avesse il mare: turchino, verde, viola, con sfumature di rosa e di arancio, e azzurro, azzurro sempre il suo colore come a volte azzurra è la vita.
Su quella vastissima pianura d’acqua, che si coniugava in un immenso arco con il cielo, s’affrettavano palpitando le onde, si avvicinavano con rapido galoppo, si allargavano, si elevavano, si scagliavano con impeto tonante sugli scogli, s’infrangevano con furore in flutti di spume dal color di giglio, in turbini di candide scintille che si scagliavano contro il cielo.
Poi ricadevano in pioggia di gocciole iridescenti come i colori dell’arcobaleno.
Questi son forse i colori nei quali oggi mi riconosco.

(Il mare ondulante di creste bianche,
        il vento che raccoglie i flutti
        e li confonde nella pioggia).

Il poeta è giovane, agli elementi
dona la furia del suo cuore,
la barca senza rotta,
lui marinaio atteso in ogni porto.

Antonio Ragone

(Da Diario di un marinaio 1960-1990 In “Viaggi verso il porto” Gabrieli International Editor – 2004).

17 giugno 2011

SANDRO PENNA, IL POETA DELLA SOLITUDINE.

Sandro Penna nacque il 12 giugno 1906 a Perugia e morì a Roma il 22 gennaio 1977.
Compì studi irregolari occupandosi con impieghi saltuari. Strinse rapporti con Saba, grazie all’interessamento del quale pubblicò il suo primo libro di poesie, con Montale, Pasolini, rimanendo comunque in una condizione di sostanziale isolamento, che la sua omosessualità contribuì a determinare. Morì in miseria a Roma nel 1977. Sandro Penna è considerato uno dei maggiori poeti del Novecento.


Mi nasconda la notte e il dolce vento

Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento.

Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.


La luna si nasconde e poi riappare
- lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare
.


Sandro Penna

È una poesia del 1939.  Il primo verso contiene l’allusione autobiografica ai tormentati rapporti familiari che lo condussero a trasferirsi a Roma, desideroso di nascondersi e trovare conforto  presso le rive del fiume Tevere che egli definisce  "mio romantico amico fiume lento", a mio parere uno dei più riusciti endecasillabi del Novecento. Il poeta, emarginato dal contesto umano, vede un’alternativa esistenziale fondata sul connubio con la natura. C’è un’eco di leopardismo nella catena lessicale, si veda l’incipit de La sera del dì di festa  “Dolce è chiara la notte e senza vento” che si ripropone nell’immagine lunare; e nel suo nascondersi e riapparire, c’è il simbolo del fallimento d’ogni armonioso relazione fra uomo e natura.

6 giugno 2011

SAFFO, TRADOTTA DA SALVATORE QUASIMODO.

Saffo, grande poetessa greca, nacque verso il 628 a. C. nell’isola di Lesbo, a Mitilene. La sua vita è avvolta nella leggenda, bella, suicida per amore. Nei pochi versi giunti fino a noi, ella canta l’amore in tutte le sue sfumature, con potenza, raffinatezza ed eleganza. Fino a pochi decenni fa si conoscevano di Saffo solo pochi frammenti. Oggi, in seguito a scoperte di nuovi papiri, di lei si possiede assai di più: nove o dieci poesie intere e frammenti per circa cinquecento versi; poco per il nostro desiderio di lettura, ma abbastanza per comprendere la grandezza di questa poesia antica. Non vi è poeta che non invochi la morte per un amore deluso, ma Saffo ne fa una costante del suo mondo poetico; l’amore è sentito come atto di sublimazione come sublime è la sofferenza che ne può derivare. In questa lirica che segue, tradotta dal grande Salvatore Quasimodo, emerge infatti l’adorazione dell’amore e la disillusa sofferenza. Saffo ricorda una delle sue compagne dell’adolescenza, forse Anattoria, che l’aveva lasciata per andare sposa in terra di Lidia. I versi della poetessa, oltre la consueta potenza evocativa, acquistano valori drammatici e visivi. Si apre con l’ardente desiderio di essere morta, veramente morta, a causa del dolore causato dal distacco amoroso, che si congiunge all’odore ch’emana la pianta del timo, a gesti affettuosi, ai rituali erotici delle terre ioniche spalmando sulla pelle olio da re, un unguento intensamente profumato di fiori. Anche il bosco ascoltava i loro canti corali, nascente da un amore inesperto ed istintivo delle fanciulle greche amiche di Saffo, che pregna i suoi versi d’una raffinata ambiguità erotica. Il verso finale è sospeso perché la tradizione lo ha tramandato interrotto. (Antonio Ragone)

VORREI VERAMENTE ESSERE MORTA  (di Saffo)

Vorrei veramente essere morta.
Essa lasciandomi piangendo forte,

mi disse: « Quanto ci è dato soffrire,
o Saffo: contro ogni mia voglia
io devo abbandonarti ».

« Allontanati felice » risposi
« Ma ricorda che fui di te
sempre amorosa.

Ma se tu dimenticherai
(e tu dimentichi) io voglio ricordare
i nostri celesti patimenti:

le molte ghirlande di viole e rose
che a me vicina, sul grembo
intrecciasti col timo;

i vezzi di leggiadre corolle
che mi chiudesti intorno
al delicato collo;

e l'olio da re, forte di fiori,
che la tua mano lisciava
sulla lucida pelle;

e i molli letti
dove alle tenere fanciulle joniche
nasceva amore della tua bellezza.

Non un canto di coro,
né sacro, né inno nuziale
si levava senza le nostre voci;

e non il bosco dove a primavera
il suono... ».
 
Traduzione di Salvatore Quasimodo 
(da Lirici greci – 1940)
 
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1 giugno 2011

GIUSEPPE UNGARETTI, IL DESERTO E DOPO: VELIA, PALINURO.

Giuseppe Ungaretti ha attraversato la costa della Campania, in particolare, la zona a sud della provincia di Salerno, il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, i luoghi mitici e misteriosi di una terra ricca di storia e di cultura, gli scavi di Elea, antica città della Magna Grecia, poi denominata Velia dai Romani, Paestum e Palinuro, così chiamato perché è lì che Virgilio colloca l’episodio della caduta di notte in mare del mitico nocchiero di Enea, tradito dal dio Sonno, mentre conduceva i sopravvissuti alla catastrofe di Troia verso le sponde italiane.

Giuseppe Ungaretti ne parla nella sua opera in prosa “Il Deserto e dopo”, scritta tra il 1931 e 1934. ne riporto, per motivi di spazio, solo alcuni significativi stralci.

- Dall’altura di Velia avevo guardato a sinistra  Palinuro colla meraviglia che fa sempre una pietra enorme resa aerea dalla distanza. A destra, la foce dell’Alento m’aveva rimesso in mente questa nozione incredibile: che sono i fiumi che portano il sale al mare. E da tutte le parti ero circondato da cespi di genziana.
Il Mastio di Velia ogni tanto torna ad osservarci, e sta a capo di quelle torri mozze di vedetta fatte alzare da Carlo V e che vanno sino a Reggio. Al coprifuoco la voce delle sentinelle da una torre all’altra andava a perdersi laggiù, e tornava: tutta la notte! Terra d’asilo, e terra di preda! È naturale che dove più invitante è la speranza, sia maggiore il richiamo del male, e non sorprende che questi luoghi fossero brama di razziatori, mori o biondi.
Di colpo, il mare in un punto ha un forte fremito: è un branco d’anatre marzaiole che si rimettono in viaggio. Sono arrivate sull’alba, e ora che principia l’imbrunire, volano via. Così fuggì quel dio Sonno sceso a tradire Palinuro mandandolo in malora col timone spezzato. E le onde, ora repentinamente infuriate, le muove forse il nuoto disperato del fedele nocchiere d’Enea? Piccole grotte ora ci fanno compagnia. I cavalloni penetrando in quegli occhi bui, disturbano le pietre, muovendo un rumore d’antiche ossa.
È già quasi notte, e in fila tornano in porto i pescatori d’alici. Raccogliendo le reti, una sera, a una maglia restò presa non la gola d’un pesciolino, ma un cernecchio, una testa d’Apollo… a quel pescatore parve il Battista. L’ho veduta al Museo di Salerno.
La gente, ed è appena notte, è tappata nelle sue case e, fuori, non c’è un lume. Il cielo è coperto, il mare è di piombo, e i monti lo chiudono come un mucchio di lastre dentate di vetro affumicato. Tre oscurità, e silenziose! È la notte assoluta.

Giuseppe Ungaretti
Da “Il deserto e Dopo” – Salerno, il 5 maggio 1932.
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