L’opera di Angelo Barile, nato ad Albisola Marina nel 1888 e morto a Savona nel 1967, uomo schivo e poeta di grande rigore letterario, nasce da una poetica della necessità, sono momenti, immagini, situazioni della vita e del mondo familiare che la memoria recupera alla luce della stessa poesia dopo che sono state a lungo sepolte nel cuore, e trasferisce con metafore balenanti, dal piano dell’esistere a quello dell’essere.
Le sue raccolte liriche sono molto distanziate fra loro Primavera (1933), Quasi sereno (1957), A sole breve (1965).
Egli stesso così ne descrive la motivazione e delinea il carattere della sua poesia: “indicavo, forse parlando a me stesso, la necessità di fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore… non è la poesia un equilibrio di resistenze? Il giuoco della libertà più aperta nei termini della legge più rigorosa. Ma come difficile, disperatamente difficile lo sposalizio. Impossibile senza la grazia. Sentivo che la poesia è un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell’intima trasparenza. Quante volte in una vita ci viene direttamente incontro? Donde l’utilità delle vigilie e delle astinenze”.
Le sue raccolte liriche sono molto distanziate fra loro Primavera (1933), Quasi sereno (1957), A sole breve (1965).
Egli stesso così ne descrive la motivazione e delinea il carattere della sua poesia: “indicavo, forse parlando a me stesso, la necessità di fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore… non è la poesia un equilibrio di resistenze? Il giuoco della libertà più aperta nei termini della legge più rigorosa. Ma come difficile, disperatamente difficile lo sposalizio. Impossibile senza la grazia. Sentivo che la poesia è un fatto del tutto insolito e raro, un dono dell’intima trasparenza. Quante volte in una vita ci viene direttamente incontro? Donde l’utilità delle vigilie e delle astinenze”.
A TARDA SERA
A tarda sera quando
prego pace ai miei morti,
ad una ad una vi chiamo per nome,
mie sensibili anime. In un lampo
a ciascun nome mi risponde il viso
desiderato,
e il sangue vi ripalpita vi segna
i suoi segreti.
Odono il mio susurro anche gli anziani
che in grembo alla memoria
già posano quieti
e forse ancora anelano in cammino
per i valichi estremi al loro Cielo.
Un poco, andando, si volgono e alcuno
lontanamente sorride…
Ma questi,
al mio cuore i più mesti,
che ieri appena spezzavano il pane
con noi sotto la lampada e nell’ombra
son passati tenendosi per mano,
lo sguardo al focolare:
questi quando la sera
chiamo per nome i miei morti, li vedo
ancora fermi, ancora
trepidi e tesi di là della porta
non richiusa, che geme.
Ecco mi fate cenno, anime care,
d’incamminarci insieme.
A tarda sera quando
prego pace ai miei morti,
ad una ad una vi chiamo per nome,
mie sensibili anime. In un lampo
a ciascun nome mi risponde il viso
desiderato,
e il sangue vi ripalpita vi segna
i suoi segreti.
Odono il mio susurro anche gli anziani
che in grembo alla memoria
già posano quieti
e forse ancora anelano in cammino
per i valichi estremi al loro Cielo.
Un poco, andando, si volgono e alcuno
lontanamente sorride…
Ma questi,
al mio cuore i più mesti,
che ieri appena spezzavano il pane
con noi sotto la lampada e nell’ombra
son passati tenendosi per mano,
lo sguardo al focolare:
questi quando la sera
chiamo per nome i miei morti, li vedo
ancora fermi, ancora
trepidi e tesi di là della porta
non richiusa, che geme.
Ecco mi fate cenno, anime care,
d’incamminarci insieme.
USCIRE DALLA VITA COME QUANDO
Uscire dalla vita come quando
s’esce di chiesa
in un finale d’organo: s’avventa
l’anima a scale prodigiose, trova
il piede sulla soglia
un bianco che vi palpita: e la luce
è nuova.
Ma uscire non è dato in rapimento.
Ch’io possa almeno
lasciarmi dietro la mia stanza, un poco
volgendo il capo a riguardarla, alfine
pulita, sgombra
d’ogni discordia, in ordine sereno
come la chiesa ora vuota: le croci
fanno una chiara ombra
sul pavimento.
Uscire dalla vita come quando
s’esce di chiesa
in un finale d’organo: s’avventa
l’anima a scale prodigiose, trova
il piede sulla soglia
un bianco che vi palpita: e la luce
è nuova.
Ma uscire non è dato in rapimento.
Ch’io possa almeno
lasciarmi dietro la mia stanza, un poco
volgendo il capo a riguardarla, alfine
pulita, sgombra
d’ogni discordia, in ordine sereno
come la chiesa ora vuota: le croci
fanno una chiara ombra
sul pavimento.
Angelo Barile
Conosco, Antonio, le tue efficaci metafore marine e ne approfitto volentieri per commentare questo bellissimo post dedicato ad Angelo Barile per dire che la vita è un viaggio con il nostro veliero che spazia verso l'infinito senza conoscerne la rotta. Cerchiamo al di là d'ogni roccioso promontorio isole che possano essere quelle che da sempre cerchiamo. Forse l'abbiamo trovata, finalmente? No, si riprende il viaggio come esiliati e con speranze indefinibili, con la consapevolezza d'aver onorato questo nostro viaggio, ossia la vita. Questa è la Poesia, come afferma Barile, sofferta, attesa fatta di “vigilie e astinenze”.
RispondiEliminaCiao, Carmela.