Nell’invocazione iniziale in latino mater dulcissima, che ricorda le litanie in onore della Madre di Gesù, è condensato l’affetto quasi religioso del Poeta per la madre lontana. Egli ha sempre sentito nel cuore la spina d’avere un giorno lasciata la madre in terra di Sicilia per andare in altri luoghi; e in quel dulcissima mater, ripetuto a chiusura della lettera, c’è anche un’invocazione di perdono, proprio come in una preghiera. Il Poeta vive a Milano e, nel paesaggio malinconico del Naviglio che urta sulle dighe, degli alberi pregni d’acqua, del bruciore della neve, egli avverte, al di là delle nebbie, la triste nostalgia. Così immagina la madre che soffre per il figlio distante dalla sua fanciullezza; eppure egli la tranquillizza:
non sono triste, e pur non essendo in pace con me stesso, non aspetto perdono da nessuno perché nessuno ho offeso; mentre molti mi devono lacrime per come mi hanno fatto tanto soffrire.
Quante lettere che la madre gli ha scritto alle quali egli non ha mai risposto!
Ma oggi, finalmente, è lui a scrivere; e s’affollano i suoi ricordi, quando ancora ragazzo, fuggì di notte con un mantello corto e alcuni versi in tasca, ad inseguire la sua vita che lo chiamava e i suoi sogni letterari. Quanto timore nel cuore della madre desolata per la prontezza di cuore del figlio e la sua generosità. Ora il Poeta ricorda, sì, rivede la madre il giorno della sua fuga dalla stazione ferroviaria di Licata, alla foce del fiume Imera, fiume di gazze e sale giacché prossimo alla foce, rivede gli alberi d’eucalyptus. Il Poeta è grato alla madre per avergli messo sul labbro una mite ironia sorridente che lo ha aiutato nei momenti più difficili e tormentati della vita, e non importa se ora ha qualche lacrima per lei e per tutti quelli che aspettano e non sanno che cosa, forse solo la morte: che sia gentile, non fermi l’orologio che batte sopra il muro della cucina, testimone di tutta la sua infanzia e non sfiori col suo gelo mortale la mano e il cuore dei vecchi. Chi risponde alla sua invocazione? Solo il silenzio, al quale il Poeta affida il suo affettuosissimo addio alla sua madre lontana.
LETTERA ALLA MADRE
«Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro,
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater.»
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro,
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater.»
Salvatore Quasimodo
(da “La vita non è sogno” 1946 –1948, in Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore 1960)